L’ULTIMO GIORNO È ARRIVATO! L’ultima campanella è suonata e il Sant’Alex si è riunito per una mattinata all’insegna di riconoscimenti, saluti e abbracci finali.
In Auditorium, i ragazzi più meritevoli delle classi dalle 2^ alle 5^, hanno ricevuto le borse di studio con i complimenti della Preside, del Rettore e dell’intero corpo docente.
A seguire, i professori di Scienze Motorie hanno consegnato i premi vinti nei tornei sportivi di calcio, calcio balilla, pallavolo e basket.
Alle 10.30, tutta la scuola si è trovata per la Santa Messa:
Nella Messa di Pasqua don Fabio ci aveva invitato a fare una cosa. Ci aveva chiesto di scegliere un gesto col quale avremmo potuto riassumere la nostra vita fino a quel momento.
Gesù, al termine ormai prossimo della sua vita, ha preso del pane, lo ha diviso e distribuito ai suoi amici. In quel momento non c’è stato bisogno di grandi spiegazioni. I suoi amici hanno capito che quel gesto era davvero rappresentativo. Gesù non era un fornaio. Quel pane fatto a pezzetti e condiviso era la perfetta immagine della sua vita, di quella vita che loro, i suoi amici, ma anche altri, avevano sperimentato.
Quale gesto scegliereste per raccontare questo anno scolastico?
Io ho vissuto tanti momenti molto intensi con voi e con i vostri amici più piccoli dell’infanzia e delle primarie. Avrei un sacco di momenti da ricordare, di gesti compiuti, di azioni simboliche che potrebbero rappresentare, ricordare e far rivivere per sempre questo anno. Perchè i gesti fanno rivivere le cose. Azioni simboliche molto semplici come “spegnere le candeline” fanno accadere il tuo compleanno, lo fanno vivere. Il tempo passerebbe lo stesso anche senza candeline, senza torta, senza amici, senza festa. Ma le candeline riassumono anche la torta, la festa, e soprattutto gli amici.
Oggi siamo qui a Messa che è un insieme di gesti simbolici forse lontani da noi, dalle nostre abitudini. La questione non è di spiegarli così poi tutti a Messa ci andremo più felicemente. Mi dite come potrebbe una spiegazione sulla luce, sulla combustione o perfino su qualche antico racconto mesopotamico potrebbe spiegare il gesto delle candeline se esso non fosse già carico di significato. E di nuovo. Il significato è dato dal vissuto, dalla presenza delle persone, del senso della vita stessa che cresce, scorre, passa epperò apporta bellezza. Certo anche del tentativo di fermare lo scorrere del tempo, il consumarsi della candela. Ma sono tutte cose a cui non pensiamo. Le viviamo e basta.
E’ solo l’abitudine ad “abitare” quei gesti, cioè a farli domestici, propri, nostri, che li abilita e li riempie di significato e di emozioni.
La Messa richiede tanto tempo, tanti momenti in cui va abitata e poi ti parla. A volte bastano gli anni dell’infanzia, altre volte invece occorrono proprio gli anni della maturità perché l’unico modo per cui le cose prendano significato è che tu lo voglia. Devi dargli credito: almeno una volta.
Quale gesto allora ho scelto per riassumere questo anno?
Diciamo che non è il più propriamente “didattico”. Ho scelto il ballo di fine anno ai Licei.
Per quale motivo?
Perchè vi ho visti felici (e questo vale moltissimo, ma vi ho visti felici anche in altre occasioni), e vi ho visti felici del fatto che tutti fossero felici. Per due ore ho visto tutti, ma proprio tutti, anche i più timidi, i meno abituati alle feste, i meno intraprendenti, i meno coordinati (come il sottoscritto) ballare e cantare. Unirsi al clima corale di festa.
La “magia” che si è creata non è casuale. Non avviene solo perché c’era un’ottima organizzazione (buona musica, belle persone, ottimo gelato, luci tecnologiche). La magia avviene solo quando tutti DECIDONO che avvenga, quando tutti, ma proprio tutti vanno in un’unica direzione, sentono di avere una condivisione sulle cose importanti della vita.
Ballando e cantando, per esempio, vi siete detti il vostro bisogno di andare oltre le fatiche e le sofferenze di questi anni. Vi stavate dicendo che si poteva continuare a credere nel bene, nel volersi bene, nell’essere felici. E il fatto di dirlo tutti insieme ha amplificato questa sensazione. E’ diventata una promessa. Persone che non si conoscevano il giorno dopo si salutavano senza tante esitazioni.
Che una singola persona decida di aprirsi agli altri, di “ripartire”, di dare segni di futuro, questo può avvenire. Ma che tutto un gruppo di persone lo faccia, questo è davvero un miracolo. E’ il miracolo della comunità. E’ un miracolo non nel senso fatalista del termine (ci vorrebbe un miracolo) ne in senso taumaturgico (facci o’ miracolo, San Gennà) ma nel senso che non è preventivabile.
Il bene non è programmabile, esigibile, estraibile!
Il bene arriva come un dono inaspettato, come un regalo, ma che dipende da un’unica azione: fidarsi e aprirlo!
Il miracolo è che i cuori delle persone si accordino. Credo che accordare, andare d’accordo derivi proprio dalla parola cuore. Occorre un atto semplice ma potente di fiducia nell’altro.
Ballare significa occupare uno spazio con il proprio corpo sentendolo al sicuro. Al sicuro da sguardi giudicanti, da un’idea di prestazione e di performance che inibisce. Significa dire all’altro “mi fido di te, so che non mi metterai a disagio, che non mi umilierai”.
La felicità che ne scaturisce non è solo frutto della produzione di endorfine o altri neurorecettori. La felicità che ne scaturisce è la prova che lì, anche solo per poco tempo, anche solo in modo molto simbolico (perché qualcuno subito si appresterà a dire che poi la vita è un’altra cosa, quella “vera”), si è raggiunti il senso dell’essere uomini e donne, di essere umanità.
Ed infatti è stato un momento estremamente umano. E non avrebbe potuto essere così se non ci fossero stati, prima, tanti giorni in cui si è faticato insieme, si è provato, a volte fallendo, a dar fiducia e ad accorgersi di riceverne. Non ci sarebbe stata la festa se non ci fosse stato il lavoro duro e quotidiano. E non sarebbe stata festa se, almeno, per qualche momento, tutti quanti non avessimo deposto le armi che, più o meno consciamente, teniamo in mano o nascoste nella mente tutti i giorni.
Vedete, noi oggi siamo in questa bellissima chiesa che è la Basilica di Sant’Alessandro. Voi siete lì davanti a me, seduti e tutti state guardano qui verso l’altare. E’ un modo questo di stare in chiesa che non è il più antico.
Anticamente le chiese non avevano sedie e banchi. E gli altari non erano in fondo alla chiesa ma in mezzo. La gente si muoveva, si spostava. Faceva una sorta di pellegrinaggio, di cammino e indicava così che la vera umanità è quella che ha uno scopo comune, una meta comune, che sa andare d’accordo; che sa accordare i cuori (se verifichiamo l’etimologia questa ultima frase è una tautologia…).
Appena ci fermiamo un istante però subito ci vengono dei dubbi. Ci guardiamo attorno e sentiamo parlare di guerre, di problemi, di incomprensioni: magari neanche troppo lontani da noi. E allora è solo l’illusione di un momento la felicità di quella sera? Il “sabato del villaggio”?
Provo a rispondere.
Avete presente quando ascolti una persona e senti che sta parlando proprio a te? Quando capisci che ti capisce, che ti entra nel cuore? Quando una persona così si rivolge a te ti succede quella cosa meravigliosa che finalmente ti fa dire “io esisto”. Noi non esistiamo perché pensiamo, mi dispiace Cartesio, è troppo poco! Noi esistiamo se qualcuno ci guarda! Cominciamo ad esistere solo quando ci sentiamo guardati.
Gesù ci ha promesso che avrebbe fatto questo per ognuno di noi. Sempre. Se anche non ci fosse nessuno a guardarmi, a farmi esistere, Lui sarebbe lì a colmare quel vuoto. Per dire il vero Lui è lì perché avvenga che altri mi guardino e perché io impari a guardare altri. E lui lo farà sempre. Sempre vuol dire che non c’è condizione umana, storica, sociale, politica in cui non capiterà a qualcuno (e se lo vogliono anche a molti) di sentirsi guardati. E finalmente di smettere di avere paura.
Oggi la chiesa è fatta come un’aula universitaria. Tutti guardano nella stessa direzione. E’ pensata per fare in modo che le persone “stiano attente”. Assomiglia molto a un certo modo di fare scuola. Ma non è quello in cui credo di più. Non è questione di modi di fare le lezioni, o di strumenti o invenzioni più o meno moderni. E’ questione di come penso a come son fatte le persone, voi, io.
E noi siamo fati non per “stare attenti” (o “sull’attenti”), ma siamo fatti per PRESTARE ATTENZIONE. Questo di una persona un essere più umano.
Avete mai prestato una gomma, o un temperino? Tornati? Quasi mai. Prestare è un gesto gratuito.
E la gratuità, cioè quando qualcuno fa qualcosa per noi, perché gli interessiamo noi, ci sta “prestando attenzione”: investe un po’ del suo tempo, delle sue risorse, della sua vita senza avere la certezza che ne avrà un ritorno.
E questo cambia il mondo. Questo darà ossigeno alle nostre società che sembrano tanto in crisi. Per questo motivo questo è lo stile nel quale vogliamo vivere la nostra scuola.
E ancora una volta Gesù è colui che ha prestato attenzione in modo completamente gratuito, unico, totale. Così unico che ci è venuto prima il sospetto e poi il desiderio che come Lui così fosse fatto anche Dio. Abbiamo sognato un Dio che prestasse attenzione a tutti gli uomini e donne di tutti i tempi. Per questo Gesù è stato risorto, e ora è vivo e presta attenzione e fa in modo che questo sia il principio con cui il mondo può davvero diventare una festa.
Il Rettore don Luciano Manenti